Ogni volta che monto in servizio, amo indossare la mia divisa. La ritengo uno scudo contro quello che si va ad affrontare in ogni intervento, sia dal punto di vista emotivo che dal punto di vista della sicurezza. Ho la divisa addosso: sono protetto. Una specie di giubbotto antiproiettile in kevlar che ti salva sia dalle visioni più brutte sia dalle situazioni più pericolose, perchè quando alle 3 del mattino si interviene in un appartamento dentro un palazzo in condizioni fatiscenti nel quartiere malfamato della città, l’unica protezione tra te, semplice persona che di giorno fai tutt’altro, e l’ambiente circostante, rimane la tua divisa, blu o rossa che sia, con la croce sulla spalla, sulla schiena e sul petto.

Nell’attività che svolgiamo, succede che ci chiamino per interventi molto urgenti, i “codici rossi”. Io di solito “dimentico” tutti gli interventi che faccio appena ho finito la mia giornata.  Il mio cervello si protegge cosi. Alcuni eventi però ti rimangono dentro, quasi per farti capire che certe esperienze vanno ricordate.

Un turno di notte come tanti altri, serata tranquilla senza troppi problemi, siamo beati in sede a raccontarcela. Sono in equipaggio con colleghi che conosco da anni, bravi ed affiatati. Insomma…la situazione migliore immaginabile. Ad un certo punto suona il telefono di servizio: “rosso, signora giovane con problemi respiratori, affetta da grave patologia degenerativa”. Ok, si parte, indossiamo la giacca della divisa – il famoso giubbotto antiproiettile – e si sale in ambulanza. L’autista fa volare il mezzo sull’asfalto, il collega di fianco gli indica la strada e chi è dietro ripassa mentalmente il protocollo per l’intervento. Ci si passa i guanti, si scambiano le ultime parole e ci si prepara a lavorare. Arriviamo. L’automedica non è ancora sul posto, poco male, si scende con “tutto addosso” e quando si dice tutto vuol dire realmente mezza ambulanza sulle spalle, tra zaino, defibrillatore, ossigeno, aspiratore, e cosi via. Saliamo, ci accolgono i familiari e ci portano nella camera da letto di questa bella casa. La signora è giovane, ma la malattia l’ha già segnata abbondantemente nel fisico. Ti guarda con occhi impauriti e ci sta: le manca il respiro. Avrei paura pure io. Ok, nessun problema, inizi a fare il tuo lavoro: parametri, ossigeno, l’occorente per il medico che arriverà a breve. La situazione è tesa ma il tuo giubbotto antiproiettile ti protegge e ti fa sentire tranquillo. Si sentono delle voci nell’ingresso…è arrivato il mike (il medico). Lo aggiorni al volo e gli fai spazio, ora dirige lui l’intervento e tu sei a supporto. Medico e infermiere si danno da fare, stabilizzano per quanto possono questa signora, giovane ma dal destino abbastanza incerto, e ti dicono di iniziare a preparare l’occorrente per caricarla in ambulanza e andare velocemente in ospedale.

Quando arriva il medico ti senti meglio: ci sono due professionisti nella stanza ed hanno in mano la situazione. Il tuo lavoro non è finito ovviamente, ma puoi mollare mezzo sospiro..mezzo. E magari slacciare due bottoni del giubbotto in kevlar, perchè la protezione ora te la offrono anche i due sanitari.

E’ il momento di trasportare la paziente in ambulanza. Telo barella posizionato, due parole di rassicurazione alla signora, un colpo di reni e via. Si parte. Passo dopo passo verso l’uscita, è tutto sotto controllo, tutto tranquillo.
Fino a che la variabile che non avevi calcolato, si presenta. Esce, compare, sbuca fuori. Sotto forma di bambina di tre o quattro anni, che probabilmente o era rimasta nascosta in camera o era stata portata via dai parenti per non vedere la mamma malata. Sbuca fuori, sfugge al papà che voleva fermarla, corre verso la mamma e la chiama “mamma, mamma!” e le prende la mano. La mamma vorrebbe stringergliela, ma non riesce, la malattia le sta impedendo anche questo, può solo dire qualche parola strozzata alla bambina.
E li, il giubbotto che ti serviva allacciato totalmente, non ce la fa a contenere l’urto della fucilata che ti viene scaricata addosso. Ti manca il fiato, gli occhi ti diventano lucidi e le gambe tremano. Guardi il tuo collega davanti a te, quello con il quale hai visto mille schifezze in anni di lavoro, ed ha la tua stessa faccia. Ti fermi un secondo, respiri, guardi la bambina e le dici che la mamma starà meglio, lo dici con un sorriso. E tutti i tuoi colleghi, medico e infermiere stanno facendo lo stesso. E lei ti crede, o almeno, tu speri che ti creda. Poi riparti velocemente, carichi in ambulanza e voli in ospedale. Sbarelli in pronto soccorso, saluti l’automedica e riparti verso la sede.
Ora finalmente puoi togliere il giubbotto anti proiettile e vedere quanti danni ha lasciato l’intervento. Guardi gli altri colleghi, parli, ti sfoghi con loro e loro fanno lo stesso con te. Arrivi in sede, ripristini il mezzo e ritorni pronto per il prossimo servizio.

Non so perchè questo intervento mi sia rimasto dentro. Ho visto cose molto più brutte in altre occasioni, sia brutte da vedere che da vivere. Forse la colpa è del giubbotto allentato, forse perchè c’era di mezzo un bambino. Non lo so. Alcune cose ti restano dentro e a modo loro, nel bene o nel male, aggiungono un piccolo tassello al tuo carattere ed al tuo modo di vivere la vita. Croce Rossa è anche questo, piccoli attimi di esperienze vissute che ti fanno diventare qualcuno che forse, senza aver fatto la famosa “domanda di ammissione”, non saresti.

Manu – Volontario CRI